Oro cresce ancora grazie a blocco federale statunitense

Negli ultimi giorni l’oro ha continuato a crescere, raggiungendo livelli mai visti prima. Attestandosi intorno ai 3.859, 94 dollari l’oncia. Un prezzo importante questo che non sembra destinato a calare.

Blocco statunitense sostiene corsa dell’oro

Non parliamo di un evento isolato visto che questo metallo prezioso ha continuato a crescere per mesi negli ultimi tempi. Ovviamente spinto da vari fattori macroeconomici tra cui l’incertezza politica e le prospettive di politiche monetarie più accomodanti.

Dobbiamo sottolineare che uno degli elementi che in questo momento pesa di più sui mercati è il blocco (“shutdown”) del governo federale degli Stati Uniti. Quando una parte dell’amministrazione pubblica viene sospesa per mancanza di fondi o accordi, molti servizi governativi si fermano, i dipendenti vengono mandati in congedo forzato e vengono rallentate le statistiche economiche ufficiali.

Questo dà vita a un clima di incertezza e gli investitori diventano meno propensi a puntare su attività rischiose. Preferendo i beni rifugio sicuri come l’oro. In questo caso, lo shutdown ha contribuito a un’accelerazione dei flussi verso questa materia prima, considerata un porto più stabile nei momenti di tensione

È un effetto questo che dipende da dinamiche differenti. In primo luogo, con il governo che non funziona al pieno delle sue funzioni, alcuni rapporti chiave sull’economia come i dati sull’occupazione, sull’inflazione o sulla produzione possono subire ritardi od omissioni.

Senza numeri aggiornati gli investitori perdono punti di riferimento, aumentando il premio per il rischio e spingendo verso asset “rifugio”. In seconda istanza, lo shutdown può alimentare aspettative che la Federal Reserve riduca i tassi d’interesse per stimolare l’economia.

Anche altri fattori concorrono al valore

oro

Dei tassi più bassi tendono però a indebolire il rendimento reale di obbligazioni e depositi, rendendo l’oro più competitivo perché non offre interessi ma protegge dalla svalutazione monetaria. Molti operatori attualmente scommettono su tagli futuri dei tassi statunitensi. E l’oro beneficia di queste aspettative.

Inoltre, il dollaro (tra l’altro moneta di riferimento per le quotazioni auree) tende a indebolirsi in contesti di instabilità politica e monetaria e un dollaro più debole fa aumentare il prezzo dell’oro per chi lo acquista da paesi con valuta diversa. Alcuni analisti sostengono che la recente corsa dell’oro sia in parte alimentata proprio da questa pressione valutaria.

Non dobbiamo comunque dimenticare che l’oro rimane un asset estremamente volatile.  Moltissimi fattori quindi potrebbero invertire la tendenza attuale. Dobbiamo ammettere però che lo scenario attuale, con un governo statunitense parzialmente paralizzato e crescenti pressioni economiche, non dovrebbe trovarsi troppo presto davanti a un cambio di rotta.

Salari, Giorgetti invita le imprese ad aumentarli

Per quel che riguarda i salari il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha lanciato un invito alle imprese. Quale? Quello di aumentarli.

Proposta interessante in materia di salari

Intervenendo in Senato nel corso del dibattito sul Documento programmatico di finanza pubblica (DFPF), Giorgetti ha affermato che lo Stato ha già fatto la sua parte con le risorse per la pubblica amministrazione. Quindi ora spetta al settore privato “fare la propria parte” e rivedere i salari al rialzo.

Dobbiamo sottolineare che le parole del ministro coinvolgono un contesto che il governo presenta come impegnativo ma con margini di manovra. Giancarlo Giorgetti sostiene che l’economia italiana crescerà dello 0,5% nel 2025 e dello 0,7% nel 2026. Previsioni che implicano uno scenario in cui è possibile sostenere politiche salariali più generose.

Il suo monito rivolto alle imprese private non lascia comunque spazio a dubbi. Non basta che lo Stato dia un contributo, serve che le aziende concorrano attivamente a migliorare il reddito dei lavoratori.

Dietro questo appello, ovviamente, c’è una logica politica ed economica precisa. Da un lato aumentare i salari può avere effetti benefici sui consumi: redditi maggiori spingono la domanda interna, dando respiro al sistema produttivo. Dall’altro lato c’è un forte messaggio simbolico. Ovvero quello di riconoscere il ruolo del lavoro in un momento in cui i cittadini avvertono il peso dell’inflazione e delle spese quotidiane. In questo senso Giorgietti invita le imprese ad agire per rilanciare il Paese.

Detto ciò bisogna pensare a tutte le tipologie di imprese e quindi ai limiti reali presenti in alcuni casi. Non tutte le aziende hanno le stesse capacità di sostenere incrementi salariali, specie in settori esposti a costi elevati o con margini stretti. Senza contare la presenza del carico fiscale e i costi dell’energia, delle materie prime e della logistica.

Possibile supporto dal governo

Giancarlo Giorgetti ha fatto sapere che il governo sta valutando interventi per favorire “aumenti detassati” nei prossimi rinnovi dei contratti, destinando risorse pubbliche per rendere più conveniente un aumento dei salari nelle imprese. Se questo dovesse avvenire potrebbe aiutare nell’esecuzione di questo particolare intervento.

Detto ciò è palese che questo invito sia legato al fatto che si discuterà a breve della prossima legge di bilancio. E che in una fase come quella attuale, dove si deve contenere il debito e si hanno obiettivi ben precisi da perseguire, i salari devono diventare una priorità per tutti.

La reale curiosità riguarda la risposta delle imprese. Ovvero se risponderanno e in che modo lo faranno. E quali saranno i settori nei quali sarà possibile ottenere una reazione adeguata in termini economici. Quella del ministro è una richiesta ambiziosa che non vediamo l’ora di vedere se verrà accolta.

 

Fed, taglio dello 0,25% dei tassi

La Fed ha annunciato una riduzione del tasso di interesse di riferimento di 0,25 punti percentuali. Il costo del denaro si trova ora tra la forchetta del 4%-4,25%. È il primo intervento di questo tipo da inizio anno e arriva in un momento delicato per l’economia americana.

federal-reserve

Cosa ha deciso la Fed

La decisione nasce da una combinazione di fattori economici e politici. Uno degli elementi più rilevanti è il rallentamento del mercato del lavoro. I dati recenti mostrano infatti un calo nel ritmo della crescita occupazionale e comincia a profilarsi il rischio che il tasso di disoccupazione possa salire. In questo scenario, mantenere tassi elevati potrebbe peggiorare la situazione, frenando ulteriormente consumi e investimenti.

A pesare sulla scelta della Fed è anche l’andamento dell’inflazione. Sebbene i prezzi al consumo restino ancora al di sopra dell’obiettivo ideale della banca centrale (intorno al 2%), l’inflazione non appare così fuori controllo da impedire una manovra espansiva. In altre parole, la Fed ha ritenuto che fosse possibile agire a sostegno dell’economia senza alimentare eccessivamente nuove pressioni sui prezzi.

Non va dimenticato nemmeno il contesto politico in cui questa scelta si inserisce. L’amministrazione Trump ha più volte fatto pressione affinché la Fed adottasse una linea più morbida, chiedendo tagli più marcati e rapidi. Alcuni membri del comitato direttivo della banca, soprattutto quelli nominati più di recente, avevano addirittura suggerito un taglio più ampio. I mercati dal canto loro si aspettano ulteriori tagli.

Elementi da tenere in conto

Un ulteriore elemento che ha contribuito a orientare la decisione è l’incertezza legata alle politiche commerciali in vigore. I dazi imposti da Donald Trump su vari beni importati hanno generato un clima di instabilità per le imprese. E un aumento dei costi di produzione, con potenziali ricadute sui prezzi e sulla domanda interna.

Il taglio dei tassi mira quindi a rendere più accessibile il credito, sia per le famiglie che per le aziende, con l’obiettivo di stimolare consumi, investimenti e occupazione. Una politica monetaria più accomodante dovrebbe anche indebolire leggermente il dollaro, rendendo più competitive le esportazioni americane. Alleggerendo in questo modo, almeno nel breve periodo, il peso del debito pubblico.

Inserendo questo provvedimento nel quadro più ampio della politica economica di Donald Trump, emerge un approccio fortemente espansivo. Tra dazi, pressioni sull’indipendenza della Fed e una politica fiscale basata su tagli delle tasse e spesa pubblica elevata, l’amministrazione ha puntato tutto sul rilancio della domanda interna. Tuttavia, questo atteggiamento comporta rischi, come la crescita del deficit e possibili nuove spinte inflazionistiche.

In definitiva, la mossa della Fed è un segnale di cautela, che cerca di prevenire un rallentamento più grave, senza però perdere di vista la necessità di mantenere un equilibrio macroeconomico. Le prossime settimane diranno se questa sarà la direzione scelta.

Oracle e OpenAi insieme: i dettagli

Oracle ha chiuso un accordo storico con OpenAI, la società che ha creato ChatGPT e che lavora nel campo dell’intelligenza artificiale. Facendo, va ammesso, la storia del settore.

Cosa hanno deciso Oracle e OpenAI

Parliamo infatti di due giganti che si uniscono per collaborare in un progetto ambizioso e che promettono risultati importanti. L’accordo prevede, nello specifico, che Oracle fornisca a OpenAI 4,5 gigawatt di potenza elettrica da utilizzare nei suoi data center. Strutture enormi pensate per “allenare” i modelli di intelligenza artificiale, sfruttando migliaia di computer.

Il valore dell’accordo è stimato in circa 30 miliardi di dollari all’anno. Una cifra impressionante. Ma, a pensarci bene, probabilmente solo Oracle ha le risorse per offrire una simile potenza, soprattutto considerando i livelli di calcolo richiesti da OpenAI per far funzionare i suoi modelli.

L’operazione rientra in una idea più ampia chiamata Stargate: una joint venture tra OpenAI, Oracle, SoftBank e altri partner, con l’obiettivo di costruire numerosi data center negli Stati Uniti per soddisfare la crescente domanda di infrastrutture nel campo dell’intelligenza artificiale.

Quello tra Oracle e OpenAI è uno dei contratti più grandi e significativi nel settore di riferimento. Un’intesa che si distingue anche per l’enorme quantità di energia necessaria. Per Oracle, rappresenta senza dubbio un passo in avanti strategico, che rafforza la sua posizione nel mercato dell’IA. Portando con sé anche ricavi rilevanti.

Una curiosità interessante: a seguito dell’annuncio dell’accordo, la ricchezza personale di Larry Ellison, cofondatore di Oracle, è cresciuta a tal punto da farlo superare Elon Musk come persona più ricca del mondo, Almeno per qualche ora. La sua fortuna ha infatti raggiunto una stima di circa 393 miliardi di dollari.

Ottima la reazione della Borsa

La Borsa ha reagito positivamente alla notizia, spinta dall’entusiasmo degli investitori, generando così un notevole beneficio per Oracle. Cosa ci insegna tutto questo? Prima di tutto che le classifiche di ricchezza sono estremamente volatili. Basti pensare che, nel caso citato, il primato di persona più ricca del mondo è cambiato nel giro di poche ore. E tutto grazie al comportamento della Borsa americana.

Inoltre, si conferma ancora una volta quanto il settore tecnologico e in particolare quello informatico sia fortemente influenzato dalla volatilità. Gli accordi strategici e il sentiment del mercato possono cambiare rapidamente le sorti delle aziende.

L’accordo tra OpenAI e Oracle dimostra quanto l’intelligenza artificiale stia diventando sempre più centrale nell’economia globale. E mette in evidenza che, per far funzionare questo settore, non bastano algoritmi e software: servono anche grandi investimenti e infrastrutture robuste.

 

 

Tim e Iliad, chiusura definitiva alla fusione

Tim e Iliad: niente più fusione. Si tratta senza dubbio di un’opportunità sfumata con conseguenze importanti per l’ex monopolista delle telecomunicazioni.

Cosa è successo alla possibilità di accordo tra Iliad e Tim

Negli ultimi mesi si è parlato molto di una possibile fusione tra Iliad e Tim. Un matrimonio che avrebbe potuto cambiare profondamente il mercato delle telecomunicazioni italiano. In queste ultime ora tale possibilità è uscita totalmente dai giochi.

Questo perché Iliad ha chiarito che non ci sono più confronti in corso con l’ex monopolista e che non riprenderanno. Cosa è successo? Tornando indietro nel tempo va detto che le fasi preliminari avevano sollevato grandi aspettative.

Nel corso del 2025 infatti, Iliad aveva incaricato Boston Consulting Group di analizzare una potenziale fusione mentre Tim, sotto la guida dell’ad Pietro Labriola, manteneva la porta aperta alla possibilità. Il governo italiano, tramite Poste Italiane e Cassa Depositi e Prestiti, era parte della partita. Ricordiamo che Poste ha acquisito una partecipazione del 24,8% in Tim, diventandone primo azionista con l’obiettivo dichiarato di favorire la consolidazione del settore

Perché la fusione tra Tim e Iliad è saltata? Un primo stop è occorso lo scorso aprile. Una conferma del non da farsi è giunta in queste ultime ore portando il titolo di Tim a subire un brusco calo in Borsa. Qualcosa che senza dubbio sarebbe stato meglio evitare.

Secondo le stime di Exane BNP Paribas, la fusione avrebbe potuto generare sinergie per circa 860 milioni di euro che avrebbero potuto essere rilevanti se investite su innovazione e rete. Senza contare che l’unione avrebbe portato a una riduzione degli operatori mobili in Italia da quattro a tre, diminuendo la pressione della concorrenza sui prezzi.

Un piccolo intoppo nel percorso dell’ex monopolista

Dal punto di vista di Tim tutto ciò avrebbe potuto portare a margini più solidi. Per quel che concerne i consumatori a qualche rischio di aumento prezzi. Con molta probabilità nella decisione potrebbero avere influito anche potenziali attenzioni da parte dell’Antitrust.

E Tim come ha reagito? Sottolineando che la fusione non è l’unica via per migliorare l’efficienza. Dato che si può puntare a network sharing, alla razionalizzazione dei costi e alla costruzione di sinergie operative con altri operatori.

L’unica cosa che ancora fa pensare è l’importante partecipazione dello Stato all’interno della società con le sue controllate. Di certo con la mancata fusione ci troviamo davanti a una importante opportunità di consolidamento persa.

Ciò non toglie che dopo il prevedibile scossone ottenuto Tim sarà in grado di riprendere la propria strada. Lavorando in modo alternativo su un possibile consolidamento.

MFE-Mediaset al 43,6% di ProsiebenSat

MFE-Mediaset ha raggiunto il 43,6% di ProSiebenSat.1, ma l’obiettivo dichiarato è uno solo: ottenere la maggioranza. E per ora, quella percentuale non è sufficiente.

MFE-Mediaset non ha la maggioranza

Per tale ragione l’offerta pubblica di acquisto ha subito una proroga fino al 1 settembre, dando agli azionisti altri 15 giorni per decidere se vendere le proprie quote. Il gruppo guidato da Pier Silvio Berlusconi, infatti, non è riuscito nell’ottenimento nella prima fase di adesione del numero sufficiente di quote. Chi possedeva il 10,26% delle azioni ha accettato la proposta. Capitale che va ad aggiungersi al 33,31% già detenuto da MFE.

Ma, come detto, non basta per arrivare al controllo della società. La posta in gioco è alta: MFE si è detta disposta a investire fino a 1,3 miliardi di euro per acquistare le quote mancanti. A complicare il quadro c’è anche la presenza di un concorrente: il fondo d’investimento ceco PPF, già azionista con il 18% del capitale. Tuttavia, PPF non ha rilanciato con una propria offerta e anzi ha consigliato ai suoi azionisti di accettare quella italiana.

L’operazione non è solo economica: ha anche implicazioni politiche. In Germania, alcuni temono che l’ingresso di MFE possa influenzare l’indipendenza editoriale di ProSiebenSat.1, soprattutto per l’associazione automatica tra Pier Silvio Berlusconi e le posizioni politiche del padre, Silvio. Secondo alcuni osservatori, in particolare in Germania, questa “eredità politica” desta preoccupazioni: c’è chi teme una vicinanza con ambienti populisti o filorussi.

Nessun problema per l’indipendenza editoriale

Pier Silvio Berlusconi, da parte sua, ha rassicurato tutti: se MFE dovesse ottenere la maggioranza, i canali televisivi manterranno la piena indipendenza editoriale.

Intanto, non mancano le indiscrezioni. Secondo alcune voci (poi smentite), due noti conduttori di ProSiebenSat.1 avrebbero ottenuto una clausola di uscita anticipata dal contratto nel caso in cui MFE prendesse il controllo. Il settore dell’informazione, più ancora dello spettacolo o dei reality, sembra essere quello più sensibile a questa possibile acquisizione.

Ora non resta che attendere. Tra due settimane sarà chiaro se MFE riuscirà davvero a conquistare la maggioranza e, con essa, il controllo del secondo gruppo televisivo privato in Germania. Da un punto di vista normativo, in ogni caso, non ci sono ostacoli: in Germania non esistono restrizioni particolari per la partecipazione di gruppi stranieri in aziende mediatiche, quindi l’Antitrust non dovrebbe rappresentare un problema.

È palese che il gruppo voglia ampliarsi in modo corretto e coerente in Germania. E che allo stesso tempo lo Stato tedesco veda come rilevante questa operazione. Bisogna capire solamente se i Berlusconi saranno stati adeguatamente convincenti.

Banco Bpm guarda verso Mps

Banco Bpm sembra guardare con interesse verso Mps. Da quel che è possibile estrapolare dalle parole di Giuseppe Castagna, punterebbe in quella direzione l’interesse della sua banca.

Cosa farà ora Banco Bpm

Qualcosa che, in teoria, dipenderebbe anche da quelle che saranno le intenzioni future di Crédit Agricole dopo il suo essere passato al 20% del capitale. Un atto che non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato un tentativo di Ops di Unicredit su  Banco Bpm. È questo ciò che ha fatto notare l’amministratore delegato nel corso della conference call di presentazione dei conti semestrali.

Perché viene fatta questa sottolineatura? Molto semplice: l’essere saliti al 20% del capitale totale dà modo a Crédit Agricole di poter fare specifiche richieste. Queste dovranno poi essere giudicate in modo indipendente, ha sottolineato Giuseppe Castagna, nell’ottica di fare il meglio per i propri soci.

Nonostante Banco Bpm sia da poco reduce dal tentativo di scalata, non sembra assolutamente chiudere nulla per quel che riguarda il futuro. Soprattutto ora che le possibilità sono diverse e gli approcci differiscono. L’Ops da parte di Unicredit è stata vista sempre in modo abbastanza ostile e trattata di conseguenza.

Ora che questo “problema” è stato messo da parte, ovviamente per Banco Bpm è necessario tirare le somme e capire come muoversi da questo momento in poi. Non bisogna infatti dimenticare la presenza della banca di Castagna all’interno del capitale di Mps per il 9%. La banca senese è attualmente impegnata nella scalata a Mediobanca. Questo rende evidente come l’istituto di Castagna sia più che coinvolto all’interno di quello che è l’attuale risiko bancario italiano e di come la sua posizione sia molto più importante di quello che si possa pensare.

Attesa necessaria prima di decidere

L’amministratore delegato sottolinea però che aspetteranno dopo il primo round di consolidamento per vedere quale sarà effettivamente la situazione per decidere quali saranno le loro mosse. Gli analisti hanno infatti evidenziato come l’istituto non sia al momento limitato dai vincoli della passivity rule, proprio dopo il ritiro di Unicredit.

L’idea è quindi quella di attendere cosa accadrà ad Mps dopo la transazione su Mediobanca. Questo significa che bisognerà aspettare ancora alcune settimane. Dobbiamo ricordare infatti che, per quanto la banca milanese stia lavorando alacremente per portare i soci a un certo risultato, allo stesso tempo si sta muovendo con cautela per quel che riguarda Banca Generali e tutto ciò che ne consegue.

L’unica certezza che si ha al momento è che l’istituto si muoverà certamente con l’intenzione di mantenere a livelli ottimali sia la produttività che l’occupazione. Lo abbiamo visto con la resistenza posta nei confronti di Unicredit. Siamo sicuri che lo stesso accadrà nel caso in cui la situazione lo dovesse richiedere nuovamente

Iveco, vendita settore militare a Leonardo

Iveco sarà ceduta a Leonardo insieme al partner tedesco Rheinmetall per ciò che riguarda il settore militare, mentre per quel che concerne il settore civile agli indiani di Tata Motors.

Voglia di chiudere dossier Iveco in fretta

È evidente che John Elkann abbia voluto chiudere velocemente un dossier che da tempo era sul tavolo. Il tutto attraverso un via libera sostanziale da parte del consiglio di amministrazione di Iveco Group, riunito a Torino per i risultati del primo semestre.

Anche dalla capitale dovrebbero arrivare alcune novità per quel che concerne il consiglio di amministrazione di Leonardo. Anche in questo caso l’occasione è la relazione semestrale dei dati. Allo stesso tempo, è però palese la presenza di un occhio di riguardo nei confronti della chiusura con Iveco. Non dobbiamo dimenticare che parliamo di un accordo da raggiungere ormai da quasi un anno e mezzo.

Come già anticipato da Il Fatto Quotidiano qualche giorno fa, cedere l’attività militare della società Iveco Defense Vehicles, è il primo livello da superare per vendere una porzione molto più ampia della società controllata da Exor con il 27,06% del capitale. La IDV è in mano a Iveco Group al 100% ed era fondamentale stabilire in modo adeguato cosa sarebbe rimasto in Italia, potenzialmente come voluto anche dalla premier Giorgia Meloni, e cosa poteva essere ceduto all’estero.

Capitale soddisfatto in tutti i casi

Tenendo conto che Leonardo è controllata al 30,2% dallo Stato, i desideri dell’esecutivo sostanzialmente risultano essere soddisfatti. Nonostante all’interno della cordata vi sia anche Rheinmetall, conosciuta per essere una delle società più importanti esistenti per quel che concerne gli armamenti terrestri.

Ricordiamo che i tedeschi, insieme a Leonardo, sono parte di una joint venture per la produzione di blindati a ruote e carri armati per l’esercito italiano, con una commessa di circa 23,2 miliardi in 10 anni. La stessa commessa alla quale parteciperà come fornitore IDV. Bisogna sottolineare che fino a qualche ora fa non erano ancora stati fatti nomi specifici, sebbene la situazione risultasse essere abbastanza chiara da tempo.

Riuscire a gestire in questo modo il settore militare di produzione Iveco consente di accontentare tutti. Soprattutto in un periodo nel quale l’attuale situazione geopolitica porta le aziende fornitrici della Difesa a una crescita importante.

È abbastanza semplice ipotizzare come questa soluzione non porterà problemi a nessuna delle parti coinvolte. Anzi. Anche nell’ottica del riarmo europeo in atto, i vari interlocutori otterranno tutti quanti potenzialmente ciò che desiderano. Tra tutti anche lo Stato italiano che, come già sottolineato, possiede capitale in Leonardo.

 

Unicredit rinuncia a Ops su Banco Bpm

Unicredit rinuncia alla sua Ops su Banco Bpm. Una mossa che non sorprende più di tanto anche se ci aspettavamo un comportamento diverso dalla banca di Andrea Orcel.

unicredit blocca dividendi fino ottobre

Unicredit ha ritirato ufficialmente l’offerta

Senza dubbio il tentativo di scalata di Unicredit su Banco Bpm è stato uno dei tasselli del risiko bancario italiano che più hanno appassionato. In fin dei conti quest’ultimo è il terzo gruppo italiano per dimensioni. E il fatto di essersi ritrovato al centro di un’offerta pubblica di scambio da parte di Unicredit ha lasciato il segno. Soprattutto perché parliamo di un’operazione da 10 miliardi di euro che però si è chiusa con un nulla di fatto.

Non dobbiamo dimenticare che ciò è avvenuto per via di tutta una serie di ostacoli posti sul cammino di questa scalata anche per mano del governo italiano.

Quando a novembre 2024 Unicredit ha lanciato la sua offerta pubblica di scambio, la reazione del Consiglio di amministrazione di Banco Bpm è stata netta. Totale contrarietà. L’’offerta, secondo la banca di Giuseppe Castagna, non valorizzava adeguatamente l’istituto. Inoltre il premio proposto era minimo: appena lo 0,5% sopra il valore di mercato.

A non piacere al management di Banco Bpm era principalmente la mancanza di un chiaro progetto industriale. Non c’era una visione chiara su sinergie, gestione futura o tutela dei dipendenti. Non erano quindi comprensibili le ragione alla base di questa operazione.

Golden Power fondamentale in negativo

Il governo italiano ha poi attivato il Golden Power, ovvero il potere di mettere condizioni a operazioni considerate strategiche. Tra queste, il mantenimento dell’occupazione, il presidio del territorio e l’uscita dai mercati russi.

Banco Bpm si è trovata praticamente “in mezzo” a una “lotta” più ampia tra Unicredit e lo Stato italiano. Nonostante le aperture europee e del Tar del Lazio, la banca di Orcel ha preferito ritirare l’offerta lo scorso 22 luglio.

Fattore questo che non ha causato dispiacere a Banco Bpm che ha tenuto il punto ed è riuscita in questo modo a evitare la scalata. Difendendo a spada tratta quella che era la propria visione industriale e identità. Ci si aspetta ora una mossa da parte del primo azionista Crédit Agricole che potrebbe lanciare una fusione partendo proprio dalla sua quota del 20%.

Insomma, il risiko bancario italiano non si concluderà sicuramente con l’abbandono della scalata da parte di Unicredit. Bisogna semplicemente capire come i vari interlocutori decideranno di muoversi eventualmente. E se ci saranno altri colpi di scena. Voi cosa ne pensate? Banco Bpm rimarrà ferma o sarà costretta a confrontarsi ancora con simili scenari?

Berlusconi, come investono gli eredi

I figli di Berlusconi: come investono e quanto guadagnano a due anni dalla sua morte? È una domanda che Il Corriere della Sera si è posto, partendo dai risultati del bilancio di Fininvest e di quelli delle controllate e partecipate.

Come investono i figli minori di Silvio Berlusconi

È innegabile che, quando si parla del cognome Berlusconi, si parli comunque di un impero industriale e immobiliare molto ampio, del quale fanno parte non solo gli investimenti “ufficiali” legati a Fininvest, ma anche le attività dei tre figli più giovani del Cavaliere rispetto a Pier Silvio e Marina. Quali sono quindi gli investimenti di Barbara, Eleonora e Luigi che, da quel che sappiamo, hanno delle attività proprie al di fuori della principale azienda di famiglia?

Ovviamente, non si può prescindere dal family office H14, gestito da Luigi, conosciuto tra i figli di Berlusconi come un investitore non avvezzo ai colpi di testa. Sappiamo inoltre che sia Luigi che Barbara possiedono delle holding personali, ma è attraverso questa holding in comune tra i tre fratelli che passano diverse attività riconducibili a tutti e tre.

Barbara, nello specifico, lo scorso anno ha perso 1,7 milioni a causa della svalutazione del portafoglio, all’interno del quale si trovava anche la sua ex holding MiHome. Più in generale, la manager possiede una quota in Caravel, legata a diritti su un’impresa nelle Filippine e detiene anche una partecipazione nella Cardi Gallery. Di lei si sa, inoltre, che abbia investito in modo rilevante in un’impresa sociale di Monza che si occupa di tutoring scolastico.

Innovazione e digitale i progetti più interessanti

Luigi Berlusconi, pur avendo un approccio cauto agli investimenti, è coinvolto sia nella Holding Italiana Quattordicesima, legata a Fininvest, sia nella già citata H14. Tuttavia, per alcune operazioni si muove attraverso la sua piccola finanziaria personale, E.I. Holding, la quale è suddivisa in tre sub-holding attraverso le quali investe nei settori dell’innovazione e del digitale. Il suo è un portafoglio modesto, all’interno del quale figura anche la sopracitata MiHome di Lorenzo Guerrieri, marito della sorella Barbara: questa, attraverso il brand Domya, affitta e gestisce appartamenti di lusso all’interno di un immobile in via Manzoni.

Insieme alla sorella Barbara, Luigi figura anche all’interno di Unaluna, una media company digitale fondata nel 2021 da Francesca Muggeri e Franco Villa, che produce due progetti di rilievo: parliamo di The Muffa, un canale social focalizzato su sostenibilità e ambiente, e della più nota Whoopsee. Un portale di moda e gossip, dove compaiono anche quote di Leonardo Maria Del Vecchio, della famiglia Elkann, e la presenza nel cda del referente italiano di Elon Musk, Andrea Stroppa.

 

Risiko bancario, il punto della situazione

Risiko bancario? Facciamo il punto della situazione. Senza dubbio, negli ultimi mesi gli istituti bancari italiani si sono dati molto da fare, creando fitte reti di operazioni nelle quali possiamo cercare di districarci.

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Chi sta giocando a risiko bancario

Chi ha scelto di utilizzare il termine risiko bancario, di sicuro l’ha fatto conscio delle conseguenze, visibili a tutti, di queste continue operazioni. È un dato di fatto che la maggior parte degli istituti bancari sia stata intenzionata, in questi ultimi mesi, ad ampliare il proprio controllo. Utilizzando operazioni pubbliche di acquist e operazioni pubbliche di scambio, per tentare scalate di diverso genere. E costringendo il governo a impugnare il Golden Power in un settore dove rappresenta, più o meno, una novità.

Tra le maggiori protagoniste di questo risiko bancario, Unicredit è senza dubbio una delle più attive. Soprattutto perché l’offerta pubblica di scambio nei confronti di Banco Bpm è arrivata praticamente a stretto giro rispetto all’acquisizione del 30% della tedesca Commerzbank. Piazza Meda non ha gradito questo tentativo, e si è in attesa della decisione da parte del Tar del Lazio in merito al suo ricorso.

Dobbiamo ricordare che Unicredit ha subito l’applicazione del Golden Power da parte del governo, con conseguenti paletti da rispettare nei confronti dell’operazione. Qualcosa che potrebbe portare la banca di Andrea Orcel a non portare a compimento l’operazione stessa.

Non dobbiamo dimenticare che Banco Bpm, al momento dell’offerta pubblica di scambio, aveva appena concluso analogamente l’acquisto di Anima Holding ed era entrata nel capitale di Mps. La stessa Monte Paschi di Siena che si è mossa per scalare Mediobanca.

Intrecci di operazioni e capitali

Com’è possibile notare, si tratta di continui intrecci di capitali e di operazioni che, se andranno in porto, cambieranno in modo sostanziale l’assetto attuale del settore. Questa partita di risiko bancario non rischia, senza dubbio, di annoiare. Una delle attese più stringenti, come già anticipato, riguarda il Tar e il ricorso presentato da Banco Bpm.

L’istituto di Banca Meda non ha mai visto di buon occhio il tentativo di scalata da parte di Unicredit. Si temono soprattutto, infatti, ripercussioni sul settore occupazionale. Va detto che anche Banco Bpm, dal canto suo, non è stata ferma a guardare. Ha infatti acquisito Anima Holding grazie a un’offerta pubblica d’acquisto lanciata a dicembre 2024. Ma, in pratica, insieme a Mps sta tentando la scalata a Mediobanca, per via del suo capitale all’interno della banca senese.

Anche Mediobanca non vede di buon occhio l’offerta di Mps e si è impegnata, forse nel tentativo di rendere più difficili le cose alla banca toscana, nell’acquisto di Banca Generali. Attraverso un’offerta pubblica di scambio che ha messo sul piatto il 13% da lei posseduto in Assicurazioni Generali. Va detto però che, in tal senso, l’assemblea di presentazione dell’offerta è stata spostata da giugno a settembre, quando si saprà già se MPS sarà riuscita nella scalata o meno.

Una cosa è certa: questo risiko bancario non annoia davvero.

Tesla, gli investimenti retail reggono ancora

Gli investimenti di Tesla reggono ancora nonostante il doppio downgrade subito. Qualcosa che non molti si aspettavano, nonostante il declassamento ottenuto da parte di Baird e Argus Research.

Investimenti retail in Tesla ancora alti

Elon Musk potrà anche aver lasciato il governo americano ed essere impegnato attualmente in una lotta “intestina” con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Ma l’azienda di cui è ceo continua a rimanere in piedi nonostante le difficoltà e il crollo in Borsa. Gli investitori retail sembrano non vivere tutto questo caos con preoccupazione. Senza dubbio, Elon Musk ha perso la scorsa settimana circa 36 miliardi di dollari del suo patrimonio personale e il calo del 15% delle azioni Tesla non è stato privo di conseguenze. Anche se occorso lungo 5 sedute differenti.

Quelli che è possibile delineare come i suoi sostenitori più incrollabili hanno essenzialmente comprato al ribasso. È stato registrato, in merito a un fondo ETF che riproduce i movimenti del titolo, un afflusso per ben 651 milioni di dollari. Si tratta del record per questo strumento, lanciato nel 2022. E, ancor più interessante, rappresenta più del triplo rispetto all’intero 2024, anno in cui Tesla ha visto le sue azioni salire di oltre il 60%.

Analizzando l’intera situazione di Tesla, va sottolineato che il calo registrato non è legato solamente alla rottura violenta tra Donald Trump ed Elon Musk. Alla fine di maggio, il mercato di riferimento subiva già forti cali nelle vendite derivanti da Cina ed Europa, tra l’altro sempre legati alla partecipazione di Musk al governo Trump. Soprattutto per quel che concerne il mercato europeo.

Andamento aziendale dipendente da diversi fattori

A tutto ciò è possibile aggiungere gli effetti della concorrenza della Cina, la quale offre veicoli elettrici in modo più capillare e a prezzi più vantaggiosi. Ovviamente, lo scontro tra il presidente e il magnate ha avuto il suo peso a inizio giugno. Soprattutto nel momento in cui il ceo di SpaceX ha demolito la proposta di legge di bilancio e di riforma fiscale americana. Evento al quale è seguita la minaccia di rescissione dei contratti governativi tra la Casa Bianca e le aziende di Elon Musk.

È evidente che Tesla non stia passando un periodo tra i più rosei. E, sebbene le due società che hanno eseguito il downgrade non abbiano eccessivo peso a Wall Street, sono comunque sinonimo del malcontento che sta pian piano conquistando gli analisti per quel che riguarda l’azienda. Tra le big cap, Tesla è attualmente la meno amata a livello statistico, con i titoli che conquistano o perdono importanza più per eventi personali che per l’andamento aziendale nudo e crudo.

Come già anticipato, però, agli investitori retail questo non interessa, dato che hanno comunque comprato azioni di Tesla in tutti questi mesi. Forse perché convinti che, comprando a un minor costo, una volta eliminato Elon Musk dall’equazione sarà più semplice guadagnare con il titolo?

Goldman Sachs approva Btp Italia

Goldman Sachs approva Btp Italia. Si tratta essenzialmente della terza agenzia di rating in ordina di tempo a dare un giudizio positivo sul debito pubblico italiano.

Goldman Sachs e la fiducia nell’Italia

Atti legati essenzialmente al mantenimento di un certo consenso da parte del Governo. Lo abbiamo visto inizialmente con Standard & Poor’s e Moody’s. E ora lo stiamo vedendo anche con Goldman Sachs che ha espresso un parere favorevole sui BTP italiani. A firmare questa analisi Filippo Taddei, attuale amministratore delegato di Goldman Sachs. Il quale in passato è stato ex responsabile economico del Partito Democratico durante il governo Renzi.

Secondo l’esperto sono tre le ragioni principali per i quali i mercati guardano con fiducia al debito italiano. E riguardano il controllo dei conti pubblici, l’effetto positivo del PNRR sull’economia e, soprattutto, la stabilità politica. È quest’ultimo in particolare l’elemento su cui Goldman Sachs punta l’attenzione. Negli ultimi dieci anni, quasi tutte le crisi legati allo spread sono state causate dall’instabilità degli esecutivi. Il rischio politico in Italia, attualmente, viene considerato molto basso.

Il rapporto di Goldman Sachs sottolinea come l’attuale governo guidato da Giorgia Meloni sia l’unico, negli ultimi vent’anni, ad aver guadagnato consensi dopo due anni e mezzo di mandato. In tal senso l’agenzia di rating ha pubblicato un grafico che confronta la popolarità dei governi Berlusconi, Renzi, Conte e Meloni.

Diversi gli elementi di supporto

titoli di stato btp

E si può vedere come il governo Berlusconi, ad esempio, aveva perso il 7,5% di consenso dopo 30 mesi, mentre quello di Conte era calato del 18%. L’attuale ha guadagnato un consenso pari al 2%.  Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e il suo sostegno nei confronti dell’economia italiana viene considerato un ulteriore punto a favore. Rafforzando la fiducia dell’agenzia nei Btp italiani.

L’agenzia americana prevede che i fondi del Recovery Fund continueranno a sostenere l’economia italiana fino al 2026. Assicurando uno spazio fiscale pari all’1,5% del PIL ogni anno. A questo deve aggiungersi il fatto che la Penisola stia migliorando dal punto di vista fiscale in tempi più brevi rispetto ad altre economie. Come quelle di Spagna, Francia e Germania. Il divario con la media europea è al grado più basso rispetto al 2016.

Le previsioni di Goldman Sachs prevedono un ulteriore miglioramento del saldo fiscale italiano: E questo nonostante l’aumento delle spese per la Difesa. Il quale dovrebbe essere compensato dall’emissione di debito europeo, riducendo la necessità di nuovi BTP.

Secondo l’agenzia, anche in caso di aumento, sia le assicurazioni che le banche del nostro Paese sarebbero capaci di assorbirlo. Visto che oggi detengono il livello più basso di BTP nei loro portafogli da 25 anni.

Unicredit e Banco Bpm, a che punto siamo?

Unicredit e Banco BPM: a che punto siamo con l’intera questione? L’Ops è stata lanciata, il Golden Power applicato e attualmente il Tar del Lazio ha tra le mani ben due questioni inerenti all’operazione.

tassi negativi ed unicredit cosa cambia

Unicredit e Banco Bpm, il punto della situazione

La prima è il ricorso proposto da Unicredit per avere chiarezza in merito ai paletti imposti dal Governo con il Golden Power. La seconda è quella presentata dalla banca di via Meda contro il maggior tempo concesso dalla Consob alla banca di Orcel per la chiusura dell’operazione. Ricordiamo che la scadenza è stata fissata a luglio inoltrato.

Nel corso del 129° Consiglio Nazionale della FABI il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, ha sottolineato che se dovessero rimanere queste le condizioni, l’operazione sarebbe da considerare tutt’altro che economica. Fattori che la renderebbero, in caso di mancata risoluzione a livello legale soggetta a un possibile ritiro e a una successiva, potenziale, riproposizione.

È ovvio che la decisione del Tar, attesa da entrambi gli istituti di credito, fungerà da discriminante dell’intera questione. Davvero, in questo momento, possiamo parlare di un effettivo risiko bancario. Dove i colpi di scena non mancano. Così come i cambiamenti da affrontare per tutti gli interlocutori, almeno quelli potenziali.

Per Unicredit, infatti, a livello industriale, questa operazione è senza dubbio conveniente e da portare avanti. I tempi potrebbero però allungarsi fino a coinvolgere il Consiglio di Stato. E superando le date di scadenza fissate vi sarebbero ulteriori costi importanti, con la conseguente necessità per la banca di Orcel di rivedere l’intera questione.

Maggiori costi e criticità

Il Golden Power e i paletti imposti dall’Esecutivo sono ostacoli legali superabili, ma la loro stessa natura li rende risolvibili solo con un aumento del costo economico dell’operazione. Un prezzo piuttosto elevato per Unicredit, soprattutto se le limitazioni dovessero permanere. Una criticità che si aggiungerebbe a quella potenzialmente legata alla decisione finale del Consiglio di Stato, che potrebbe essere richiesta da Banco Bpm. E che non arriverebbe in tempo utile per la chiusura dell’Ops.

Come già sottolineato, la banca di Andrea Orcel potrebbe ritirare l’offerta e ripresentarla in futuro. Nel corso dell’incontro si è parlato anche dell’Ops di Mediobanca su Banca Generali, ritenuta da molti una mossa molto interessante all’interno del risiko bancario attuale. La quale potrebbe aiutare la banca di Milano a gestire in modo migliore l’Opa di Mps nei suoi confronti.

Tutta questa voglia di “allargamento” dei grandi istituti di credito, nei confronti di altri dai buoni bilanci, deriva fondamentalmente dalla volontà di essere più competitivi a livello europeo. Dove un approccio di tipo paneuropeo viene visto come lo strumento più adatto per affrontare le nuove sfide, sia internazionali sia nazionali, del settore.